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leggere nuoce gravemente all'ignoranza

riflessioni e realtà

"Cucinando di stagione in stagione" di Carla Sermasi Calvi

di Carla Sermasi Calvi
“Guarda i colori delle foglie” le disse lui al primo incontro,mentre percorrevano i campi della valle alla ricerca di funghi. “Osserva i ventagli sui pioppi che si aprono e lasciano le loro ali al vento, lungo il crinale del calanco.
Accompagna anche tu le foglie che si accartocciano e si posano sul greto del fiume“.
Lei guardava ma non capiva tutta quella poesia d’autunno. Perché mai a lui piaceva così tanto?
“Io sono nato un autunno"
Col tempo la loro frequenza divenne più assidua. Lui divenne il suo cuoco autunnnale.
Zuppe portate in ebollizione in acqua abbondante, cipolle dorate lasciate sobbollire poi sgocciolate, asciugate e sistemate con cura fetta dopo fetta.
Donava amore a ogni piatto.Prelibatezze in ciascuna scodella.
Lei lo guardava sparpagliare il parmigiano, quello rigorosamente stravecchio. Si incuriosiva a vederlo versare con calma il brodo sugli ortaggi. Lo scrutava mentre completava con una manciata di pepe, e poi...Condivisione. Invito a cena autunnale. Per lei e per i suoi amici. Per farla felice. E lui allora la vedeva sorridere mentre serviva le sue prelibatezze. Cipolle, tartufo e autunno. Poi...sparì dalla sua vita all’improvviso, in un giorno di fine dicembre.
Volatilizzato.
Lei non cucinava da sola. Dimagriva e non vedeva nemmeno più gli amici. Arrivò il secondo lui. Era nato in un antico febbraio. Adorava proporre piatti che ricordavano il freddo, come quando la neve sul monte conservava la carne della scrofa, quando si vestivano i lardelli bollenti dei ciccioli di una veste di stoffa di lino stretta e di foglie di alloro, poi li si premeva con la forza di due mattarelli per estrarre lo strutto bollente. Cuoco invernale, un giorno le cucinò il fegato. Lo teneva per un paio d'ore in acqua fresca corrente. Toglieva con cura le pelli, inerti, lo tagliava, fettina su fettina. Lo saltellava rapidamente in un tegame e, quando con la coda dell'occhio lei lo guardava, sfiorava i fegatelli con la mano per comprendere se erano ben rosolati. Era poi il momento in cui li bagnava col Lepanto, brandy prezioso con il quale accompagnava le fredde serate, poi continuava paziente la cottura, finché il liquido seduceva completamente l’anima ormai intirizzita e molliccia. Allora lo lasciava intiepidire, toglieva le foglie aromatiche e col mortaio di marmo pestava e frollava.
“Usa il mio moderno tritatutto! Fai prima”.
“No, non sarebbela stessa cosa. Se usi un robot il mondo della gastronomia andrà a rotoli.”
Versava il passato di fegato in una casseruola fonda e batteva col ghiaccio,fino a ottenere una spuma bianca. Aggiungeva da ultimo il tartufo, un tiro di panna e via, in serbo in uno stampo, sempre quello da tante stagioni, lo aveva portato dalla sua casa d’origine, affidabile attrezzo della cucina, come fosse una persona di famiglia. Poi, lentamente, si avvicinava al frigorifero e adagiava il patè appena preparato nel ripiano più basso. E si sedeva, pronto a gustarlo in compagnia di lei. Ma non volle invitare mai un amico a cena. Poi un giorno anche il cuoco d’inverno se ne andò. E non ritornò.
Lei ridivenne magra e affamata.
“Mi piace stare a bagno nell'acqua del mare, in riviera, mi fa bene, ammorbidisce la pelle, mi toglie le fatiche della giornata”.
Lei ascoltava questo nuovo terzo lui, che era nato a luglio.
Un giorno gli propose di cucinare per lei.
Lui accettò. Si cimentò in due primi.
Orecchiette impastate con il grano duro del caldo tavoliere pugliese e spaghetto alla chitarra.
Con quello che l'orto assolato offriva. Aglio, peperoncino, foglie larghe di basilico, prezzemolo. Capperi della nera vulcanica Pantelleria. Cime di rapa e rosmarino, quelli che lui era solito rubare dal giardino rustico della vicina di casa, di nascosto, per vezzo,senza che lei se ne accorgesse. Tutto sminuzzato con una precisione chirurgica grazie a un robot ultramoderno. Senza perdere una briciola o un millimetro di foglia. Metteva poi in padella con olio e pepe, scioglieva le acciughe che aveva lasciato sotto l'acqua corrente a dissalare, poi aggiungeva la pasta e augurava buon appetito. Lei era contenta e stava per iniziare a mangiare, ma... non invitò amici e nemmeno lui rimase a pranzo.
Estate, basilico, salse, robot. Poi silenzio assoluto e fuga.
Una mattina di primavera lei finalmente capì, poteva frequentare un corso di cucina, allenarsi e arrangiarsi a cucinare.
Imparò da sé, invitando anche amici, di stagione in stagione. Tutto andò per il meglio.
Poi...ritornò l’autunno.
“Guarda i colori delle foglie”disse un nuovo lui…

"Cesare Maestri" di Stefano Chiarato

di Stefano Chiarato

Dopo aver letto vari romanzi e vari saggi, ho ritenuto opportuno cambiare genere e leggere qualcosa d'altro. Da appassionato di montagna quale sono, un bel libro di avventure sulla stessa è quello che ci vuole. Gli scaffali della biblioteca di Muggiò, a riguardo, ne sono ben forniti. Messner, Bonatti, Jon Krakauer, e poi guide sui vari gruppi montuosi. Ho solo l'imbarazzo della scelta, ma come sempre non sono io a scegliere, ma è il libro che sceglie me. Un libro più di tutti mi chiama a gran voce. E' la voce di Cesare Maestri che mi chiama dalle pagine di “... e se la vita continua”. Lo prendo in mano, è un formato tascabile, non per niente la collana è “I nani” edizioni Baldini & Castoldi. Soltanto a tenerlo in mano sento fluire l'adrenalina tra le pagine. Do un'occhiata alla quarta di copertina: “Sto invecchiando. Cerco di farlo con orgoglio e coerenza, cosciente che, se invecchiare è un privilegio, farlo con dignità è un dovere.” […] “La montagna mi ha insegnato che al mondo nulla ci è dovuto e che ogni conquista deve essere pagata con dolore e sacrifici. Mi ha fatto comprendere che la vita è stupenda e degna di essere vissuta.” Mi basta e lo prendo in prestito.
Cesare Maestri racconta se stesso dall'infanzia ad oggi, 1995, anno in cui ha terminato di scrivere questo libro. Figlio di un irredentista trentino che con la moglie si guadagna la vita allestendo e interpretando spettacoli teatrali. Una vita difficile alla ricerca di una dimensione in cui stare; dopo avere provato vari lavori, scopre l'alpinismo e questo diventerà la sua vita. Diventerà il più forte arrampicatore e sarà soprannominato “Il ragno delle Dolomiti”. Teatro delle sue gesta sono, principalmente le Dolomiti di Brenta. Fare la guida alpina e poi il maestro di sci saranno le professioni che gli permetteranno di vivere. Una vita vissuta con la morte come vicino di casa. Questa si prenderà sua madre quando Cesare è ancora in tenera età. E poi i morti durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale. Una morte addirittura cinica che si porterà via la vita di un alpinista soccorso da Cesare, proprio nel momento in cui lo porta in salvo. E la morte del suo compagno di cordata scendendo dal terribile Cerro Torre in Patagonia. Dopo essersi portata via la vita del suo compagno tenterà di portarsi via anche la sua, ma sarà tratto in salvo giusto in tempo. A leggere queste situazioni si sente l'adrenalina tramutarsi in angoscia che sale a serrarti la gola.
Negli anni Cinquanta l'alpinismo era molto popolare e occupava le pagine dei quotidiani. Nel libro si accenna alla rivalità con Walter Bonatti con conseguenti polemiche. Bonatti e Maestri sono stati per l'alpinismo i Coppi e i Bartali del ciclismo; solo che si sfidavano a distanza. Per un appassionato di montagna come me, non è piacevole questa rivalità, queste polemiche tra i due, perché sono stati due grandi alpinisti, entrambi dei campioni da ammirare. La montagna, l'alpinismo, l'escursionismo è solidarietà, condivisione, amicizia. Sui sentieri ci si saluta sempre, anche se non ci si conosce.
Ma il libro non è solo alpinismo e scalate eroiche, è anche un libro sulla vita e offre numerosi spunti di riflessione. Cesare Maestri scrive: “La montagna mi ha insegnato...” Quante volte ho sentito dire che la montagna è scuola di vita? Tante. E allora citazioni valide per l'alpinismo come: “Non esistono montagne impossibili da salire, esistono uomini che non sono capaci di salirle.” possono essere lette nella vita quotidiana come: non esistono problemi impossibili, ma esistono persone che non sono in grado di risolverli e avere la dignità, altro tema ricorrente nel libro, di ammettere di non esserne in grado. E così si esprime l'autore a proposito della paura: “Imparai che la paura è il termometro del coraggio, che un uomo senza paura è un temerario. Imparai a distinguere la differenza tra lo spavento che dura un attimo e la grande paura che può durare ore o giorni. Imparai che per rimettersi dallo choc di uno spavento basta un po' di sangue freddo, mentre per superare una grande paura, bisogna avere una razionale preparazione psicologica e una profonda conoscenza dei propri limiti.” Per Cesare Maestri un uomo senza paura è soltanto un temerario, per il sottoscritto è uno stupido, un incosciente. Tutti abbiamo inconsapevolmente paura, ma difficilmente ammettiamo di averla. Molti, o quasi tutti, pensano che la paura sia una componente di cui vergognarsi; essa è quella componente della vita difronte alla quale si deve usare raziocinio, è la componente che permette di optare per scelte opportune e adatte alle proprie capacità, capire quali sono i propri limiti oltre cui è meglio non esporsi.
E poi sottolinea ,appunto, l'importanza della dignità: “... perché solo i forti sanno soffrire con dignità, senza lasciarsi sopraffare dagli eventi e dalla frustrazione di sentirsi impotenti.”
“... mi chiesi perché bisogna sempre pagate con sofferenze l'amore che si porta a qualcuno.”
Sono tutte situazioni in cui è facile imbattersi nella comune vita quotidiana.
Dalle pagine del libro traspare anche una genuina filosofia: “Si nasce, si vive, si muore. Tutto stava nel saper morire con la stessa dignità con la quale si era vissuti. 35 anni di alpinismo mi avevano insegnato che i problemi dovevano essere risolti a mano a mano che nascevano.”
Nel libro Cesare Maestri parla molto anche della compagna della sua vita, Fernanda. C'è anche l'amore in questo libro. Attendendo Cesare, di ritorno dalla seconda spedizione al Cerro Torre, così dice Fernanda: “Ecco l'aereo. Viene verso di me come se il pilota sapesse che aspetto il mio uomo […] le gambe mi si piegano. Basta Cesare, ti voglio tranquillo, normale, anonimo. Ti voglio mio. Eccolo là il mio Cesare. Si affaccia allo sportello. Mi sorride. Alza la piccozza in segno di vittoria. Mi guarda e sono già sua. Mi sento smarrita. Ma allora lo voglio davvero normale,tranquillo, anonimo, o lo voglio così, euforico, acclamato e vittorioso? Come potrei costringerlo a una vita qualunque, privandolo di sentirsi vivo e della gioia di rischiare? Se i miei desideri si realizzassero lo ucciderebbero. Sono perduta, ma lo accetto così.” Una sincera dichiarazione d'amore, che dimostra come amarsi sia soprattutto accettarsi, incondizionatamente. Accettarsi e non cambiarsi.
Un libro che è un incitamento alla vita, un inno alla vita, non poteva che concludersi così: “Una vita senza sentimenti profondi e senza ideali è inutile come una goccia d'acqua nel Sahara.”
L'alpinismo insegna ad adattarsi a situazioni particolari, difficili; è sofferenza, fatica, ricompensata da una grande gioia. Cesare Maestri non è solo alpinismo, si è adattato a fare di tutto con successo. Poteva non scrivere libri?
Infatti dimostra anche buone doti di scrittore. Al suo esordio come scrittore con “Lo spigolo dell'infinito”, pubblicato nel 1956, ha avuto l'autorevole prefazione niente di meno che di Dino Buzzati.
Cercavo un libro di avventure e ho trovato molto di più.

"Germana" di Loretta Fusco

di Loretta Fusco

Germana, come dimenticare la sua algida bellezza racchiusa in un viso di porcellana nel quale spiccavano due incredibili smeraldi e una bocca dai denti candidi e perfetti.
I capelli corvini scendevano lungo la schiena lisci e compatti mentre il vitino da vespa, sapientemente strizzato, metteva ancor più in risalto le sue forme generose.
Era impossibile non notarla perché la sua bellezza era altresì valorizzata da un abbigliamento che evidenziava un corpo perfetto su un volto da bambina imbronciata.
Ebbene quella bambina era stata la mia più cara amica

"Nevraz"

di Fabrizio Chiesura

Stanco di una vita passata dinanzi alla cinepresa, deciso finalmente i sogni a sognarli e non a viverli, il Nevraz, di professione attore, una notte chiese aiuto a Morfeo: pregò il Dio, figlio del Sonno e della Notte, di accoglierlo per sempre fra le sue braccia. Sogni a iosa – pensò – sogni lunghissimi, eterni, sogni a colori e senza, sogni meravigliosi dove il cielo e la terra sono fusi in miscela, in mulinello dolce, e il cuore riposa e batte leggero: io vi aspetto.

"Gioventù" di Fabrizio Chiesura

di Fabrizio Chiesura

Sulla gradinata stava seduto un vecchio dal lungo volto cavallino; teneva sulle ginocchia un barattolo di latta, pieno di minestra che ancora fumava.
Si fregò le mani con allegria; cavò dalla tasca un cucchiaio, lo strofinò più volte sulla manica della camicia strappata, e attaccò la minestra a grandi cucchiaiate.
Di fronte aveva i ruderi del teatro, e io, d'un tratto, vidi il vecchio, le scarpe rotte e la camicia strappata, come parte delle macerie che si intestardiva a voler vivere un altro po' per conto suo, ma che fra non molto vi si sarebbe saldato per sempre. Lo guardavo da basso senza ch'egli mi vedesse, tutto preso com'era a mandar giù cucchiaiate di minestra.
“Olà, nonno. Vi va?”
Il vecchio mi guardò solo un minuto, come uno che ha molta fretta, strizzò l'occhio, e riprese a mangiare, ingoiando un'altra palata di minestra di orzo o di riso: non la masticava nemmeno, la rigirava con furia un paio di volte nella bocca senza denti, poi giù, con il pomo d'adamo mobile, sul collo, come una palla da biliardo.
“Buon appetito, nonno” gli dissi. “E' buona, nevvero?”
Egli lasciò per un istante il cucchiaio nella minestra, mi guardò.
Sopra di noi c'era una gran fetta di cielo azzurro, e il vecchio disse: “Gioventù”, vedendo forse in me la grande fetta di cielo appena lavato, e mi sorrise riprendendo a divorare.
“E il secondo, nonno, dov'è?” gli chiesi.
Adesso nel cielo passava veloce uno stormo di colombi, con forte fruscio di ali, e il vecchio di nuovo mi guardò, e aveva un grano di orzo o di riso appiccicato al mento quando mi disse: “ Gioventù”, vedendo forse in me lo stormo di colombi, e con esso potere di correre, viaggiare, volare, scavalcando montagne. Seguitò a mangiare, ma di minestra doveva restarne ben poca dentro al barattolo, perché il cucchiaio toccava già il fondo.
“E il dolce, e la frutta, nonno, dov'è?” insistetti.
Stavolta non disse niente, sorrise compiaciuto, scrollando paternamente la testa; e vide in me capacità di schiamazzare, entrare nelle pasticcerie di domenica pomeriggio con ragazze che hanno baffi di vaniglia e si puliscono le dita in fazzoletti di profumo.
“Ma un po' di vino, nonno; due dita soltanto ci vorrebbero, no?” gli dissi ancora, ed egli grattò il cucchiaio contro il fondo , ingoiò l'ultima scarsa palata, leccò il cucchiaio e lo lasciò cadere nel barattolo.
Si alzò, guardò i ruderi, di fronte, che lo chiamavano a sé con insistenza; poi, dall'alto gradinata, osservò me in basso. Sorrise e di nuovo scrollò il capo.
“Eh, gioventù” sospirò allontanandosi, con il barattolo che gli penzolava vuoto nella mano.

"Il suo nome in un anagramma" di Frank Spada

Disegno originale di Giorgio Camuffo / © Frank Spada

di Frank Spada

Un artista del trapezio – arte che sappiamo la più difficile per chi si cimenta in alto, lassù, tra le volte di un teatro, un baraccone o un caravanserraglio in viaggio da una fiera all’altra o sul soffitto di una camera da letto tinteggiata azzurro cielo per l’immaginario degli spettatori più animati del privato – aveva organizzato la propria vita soltanto per cercare la solitudine dagli altri; in modo tale da rimanere, fintanto che gli era dato vivere, solo con se stesso per perfezionare i suoi numeri, notte e giorno, al riparo di un nome privo di generalità documentate e di un’abitazione che in qualche modo potesse intendersi reale.
D’altro canto, gli osservatori, attirati da ogni dove dal suo fare acrobatico, muniti di uno strumento in grado di avvicinare o allontanare il panorama affacciato sui dintorni, un cannocchiale a rovescio fornito da un ente turistico aziendale finalizzato a promuovere la diffusione culturale tutt’altro che locale, se ne stavano con gli occhi vitrei sugli schermi, fissi sulla virtualità delle esibizioni aeree, quasi quotidiane, di un figurino asciutto dalle sembianze in là con gli anni, per studiarlo e carpire il segreto dei suoi voli.
A tutte le sue necessità, peraltro modestissime, provvedevano le sue estimatrici. Che si davano il cambio e vigilavano in basso per mandare su e giù tutto quello che occorreva in alto dentro un contenitore piccolo e leggero, ideato a tale scopo –, carezze, baci, frivolezze, attenzioni, appaganti leggerezze, insomma. Mentre gli altri, gli osservatori, erano soltanto dei visionari o degli istruiti ricercatori, o uomini saggi, o filosofi tardo-cristiani, o sognatori poco interessati a lui; se non per quanto detto.
Questo modo di vivere non creava particolari difficoltà a chi gli stava intorno; ad eccezione di chi, non visto e desideroso di colpire il trapezista con un tiro fionda per farlo cadere a terra e sgomberare il campo dal gioco a tiramolla che da più tempo avvicendava i tempi in corsa, si angustiava senza pace malignando. A dirla tutta, però, il trapezista dava fastidio anche a molti altri – perché lui rimanesse lassù, e che non si potesse nasconderlo nemmeno quando se ne stava seduto tranquillo a soffiare le sue bolle insaponate, iridescenti l’aria degli specchi aperti come ante di una credenza tarlata polverosa, desueta, e il pubblico pareva distrarsi per lo svolgimento di una fiera letteraria, o un parco giochi che la società dei benpensanti organizzava per trattenerli nell’inconscio – sempre fuorviante per chi non ha radici iconografiche – era un mistero.
Solamente una donna dal nome anagrammato di una divinità, una madre generosa con tutti i suoi figli, intuì il pericolo che stava per abbattersi anche su quello che viveva in levità e senza reticella, ed era sempre in viaggio verso la fine programmata dal mistero della vita: il regalo non richiesto da nessuno ma accettato in quanto genera perpetua sofferenza.
Fu lei la prima ad avvertire, dal cantuccio di uno Scrigno magico, da dove origliava per tenersi informata, che l’imberbe trapezista aveva iniziato a piangere smettendo di soffiare bolle in aria, e che la sua esistenza era ormai lì lì per trascinarlo via nel torpore di quel sonno che… sulla sua fronte, liscia di bambino, cominciarono a disegnarsi le prime rughe.

"Domani è un altro giorno - Storia di un istante" di Stefano Chiarato

di Stefano Chiarato
Quando qualcosa finisce, capita di avere la percezione che sia la fine di tutto. Quando qualcosa finisce, qualcosa di nuovo ha inizio.
Quando un giorno finisce, di lì a poco uno nuovo prende vita con le sue, magari poche, certezze, con le sue incognite, con le sue preoccupazioni, con le sue ansie e le sue paure. E, se il giorno si conclude in un bel tramonto, questo sarà di buon auspicio per il giorno a venire.
“Domani è un altro giorno.” E' il titolo che ho dato all'immagine di questo tramonto con la speranza di un bel giorno a venire.
Il “domani” è stato raggiante, proprio come questo tramonto, perché è valso il I° posto al concorso fotografico indetto dal CAI di Muggiò.
La foto (Nikon D60, 55 mm, f11, 1/125) è stata scattata a Rosolina Mare la scorsa estate; è una foto fortemente voluta, pensata, cercata e soprattutto aspettata. E' l'immagine di un istante che non ritorna, che non capiterà più un'altra volta nella vita.
Io e mia figlia eravamo lì a vivere quell'istante magico.

Storia di un istante
28.08.12 Rosolina Mare.
“Vieni Martina, saliamo al solarium a vedere se ci riesce di fotografare il tramonto.”
Io con la mia reflex e vari obiettivi, lei con la sua nuova compattina rossa fiammante. Il punto di ripresa è buono, anche se la pineta lascia intravvedere solo un piccolo scorcio di laguna; dalla parte opposta la vista spazia sul mare.
I primi scatti deludono un po', il sole è ancora abbastanza alto sull'orizzonte; bisogna aspettare un po'. Ci sono nuvole, proprio dalla parte del tramonto, potrebbero essere determinanti nel bene e nel male.. Ho una gran paura che mi nascondano il sole. Provo le inquadrature, armeggio con gli obiettivi. Intanto Martina, alle mie spalle, fotografa il mare. La raggiungo. Sotto di noi si stende la via che porta alla piazza. Si accendono le luci, fervono i preparativi per la serata. Oltre sta la spiaggia, deserta. Riposa dopo le fatiche del giorno. Gli ombrelloni si addormentano alla ninna nanna della risacca. Il mare è calmo, riflette l'azzurro intenso del cielo fino là dove incontra le tenebre della notte. E ad esse si unisce. Proprio là, dove mare e cielo diventano un tutt'uno, spiccano le luci del rigassificatore. Luna-park della solitudine in mezzo al nulla. Sempre in mezzo al nulla, più a sud, sta il faro, nel punto dove il Po si concede all'Adriatico. Il faro fa l'occhiolino a una Luna, rotonda, pallida, alta nell'azzurro profondo. Ma la Luna malinconica, guarda il nord, suo sogno proibito, e ai cumuli di panna montata che si sforzano invano di conservare il loro candore. Al di sopra di essi, cirri uncinati si aggrappano disperati alla sommità del cielo.
Tutto. Fotografiamo tutto.
Poi torniamo a guardare ad occidente. Ora il sole si appoggia alla pineta ormai in ombra e ne fa una silhouette nera. Le nuvole si sono disposte in cordoni che suddividono il cielo in vari strati e ogni strato assume una tonalità diversa. Tra di essi si disegnano gli strali del sole. La luce è ancora un po' intensa, perché il sole non è proprio basso, il vero orizzonte è al di sotto della pineta. Scatto.. Scatto ancora fino a quando il sole è una strisciolina sottile e lancia i suoi raggi, gli ultimi disponibili. Ora disegna una corona di raggi che trafigge ogni strato di cielo. Nel mirino vedo la foto desiderata a lungo, e ho una sensazione: non solo la vedo, ma la sento. La sento nella testa e mi si ripercuote nel petto. Sento l'emozione. Mi appoggio coi gomiti alla balaustra del terrazzo, trattengo il fiato e scatto l'immagine di un istante magico, unico e irripetibile.
Per la legge che dice che quando qualcosa finisce, qualcosa comincia, finito il tramonto ha inizio il crepuscolo. Ora il cielo si accende di un arancione di fuoco, con sfumature gialle, rosse, violette. Continuiamo a scattare foto. I toni cambiano rapidamente. Dalla parte opposta le tenebre hanno avuto la meglio sul mare. Al di sopra di esse si riflette il crepuscolo in una tonalità rosa rassicurante. Non avere paura. Sarà una notte tranquilla. La luna bianca è quasi allo zenit.
Poi anche il crepuscolo si spegne, rimane solo una fascia luminosa al di sopra della pineta.
“Vieni, Martina, la magia è finita. Ora possiamo andare a mangiare.”

"C'è un negozietto dalle parti di Soho" pag.2

Lo trovai dopo un paio di giri a vuoto. Era in un piccolo vicoletto a mattoni rossi, che terminava con la porta del negozio in questione.
Old Italia diceva l’insegna. Vecchie lettere scrostate che un tempo, più o meno all’epoca di Pitt il giovane, dovevano essere state dorate.

"C'è un negozietto dalle parti di Soho" pag.1

Non bisogna credere a chi dice che Londra sia inospitale e invivibile, per noi italiani. E’ solo diversa.
Innanzi tutto piove.
Trecento giorno all’anno. La nebbia invece è fenomeno più raro di quanto si pensi.
La pioggia basta e avanza.
Quel giorno c’erano pioggia e nebbia. Tanto per dare un’idea della situazione.

"C'è un negozietto dalle parti di Soho" di Alessio Pracanica

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