Poesie
J. Rodolfo Wilcock
Adelphi ed.
Durante il seminario “Il notes magico” organizzato nell'aprile '80 dalla Pratica freudiana, Giorgio Agamben - “La memoria, la voce, la morte” - si è mosso verso quel culmine dove la parola ritrova, e ne soffre quasi, il peso di tutta la sua memoria, la corposità della voce, la storicità della propria morte: e, con Hegel, con una citazione tratta dalle “Lezioni di Jena”, “ogni animale ha nella morte una voce/esprime sé come abolito”, ha indicato forse la qualità di ciò che si nomina “apparato psichico”. Nello stesso tempo, e in altra sede, dentro le fila di un dibattito “per il romanzo degli anni '80” organizzato dalla rivista “Tabula”, Antonio Porta, non a caso un poeta, conferma che “I più grossi linguisti del secolo hanno alla fine scoperto questa specie di doppio binario del linguaggio che, da una parte muta autonomamente, dall'altra muta nella storia. Queste due parallele che non dovrebbero incontrarsi mai, in realtà continuano a incontrarsi e intrecciarsi, ed è stranissimo: è un processo che nessuno è riuscito veramente a spiegare, come nessuno è riuscito spiegare veramente come funziona il cervello, il fatto che noi si ricordi per immagini molto più che per parole, eccetera.”
Tutta l'opera poetica di J. Rodolfo Wilcock in italiano – da “Luoghi comuni” a “La parola morte”, da “Italienisches liederbuch” a “I tre stati” fin'anche alle “Poesie inedite” - pubblicata sotto il titolo “Poesie” da Adelphi, ci sembra muovere, anche se molto vi è di deviante, lungo questo asse: dalla parola al “come conosciamo”, cioè. Già “Luoghi comuni” quasi si aprono con “Nonostante i trionfi della scienza applicata/gli strumenti migliori per osservare l'universo/sono ancora la penetrante lempada del verso,/la musica, la voce, di una gola privilegiata,” per chiudersi con “Oh tornare al nulla informe,/al nulla senza tempo e senza varietà!/Tornare al caos uniforme/in cui si annienta la diversità/ e sprofondano le rose, i busti dei tiranni,/le migliori pellicole e gli esseri umani!”, dove il nodo è senz'altro fra distinto e indistinto, fra determinato e indeterminato, fra parola e, appunto, caos.
Ma più avanti, ne “I tre stati”, l'indagine si fa più specifica, “Chi è legato alla carne deperisce,/come la carne che in noi deperisce./Ma la morte mentale avviene prima,/forse alla prima accettazione/di un ordine che non è concordia dei diversi/ma inganno e privilegio del potere.”, per uscirsene in una pagina di puro godimento estetico: “Cade una piuma bianca, di colomba,/arruffata, leggera, lentamente,/attraverso lo spazio immobile,/attraversa l'aria di vetro,/dal cielo latteo al lago contenuto,/dall'azzurro all'azzurro, la piuma bianca./Galleggerà sull'acqua, rispecchiata./Mai un rumore, né disordine di vento/ne turberà la discesa obliqua./E il pensiero che arriva alla coscienza.”
E più oltre, ne “La parola morte”, Wilcock dirà: “Noi fatti di parole e di null'altro,/noi fabbricati a caso da un linguaggio” e “Chi non ha nome non può morire,/la bestia ignora il proprio nome e vive, chi non ha la parola non perisce.”; “Ogni parola nome di una cosa/è un nome singolare della morte/tranne la vita che non è parola” e “infatti io non è, perciò non muore,/ma appena dici io gli dai morte,/ ogni io detto è un io assassinato.”
In tutto ciò, Wilcock ci pare attingere dal motivo contenuto nella citazione hegeliana ma di continuo cozzando, con la sua ricerca del mostrare “come conosciamo”, nel bisogno di imbattersi nella rima o nella cesura, per cui il verso risulta spesso, e diremmo ossessivamente, tagliato nei due emistichi. E' una misura poetica dunque, questa di J .Rodolfo Wilcock, che vale forse come “approssimazione alla grazia” (la definizione, a ben altro livello, riguarda il fare leopardiano ed è di Gianfranco contini) in quanto grazia impedita da quella espressività che egli insegue, pescando a piene mani nel passato, senza posa.
Fabrizio Chiesura
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